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Energia solare dallo Spazio da trasferire sulla Terra: ci sta lavorando l'Esa

Energia solare dallo Spazio da trasferire sulla Terra: ci sta lavorando l'Esa
L’Agenzia spaziale europea ha commissionato due studi per lo Space based Solar power: stazioni in orbita che inviano energia wireless raccolta con pannelli fotovoltaici lassù, dove non tramonta mail il Sole
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Sopra le nuvole, oltre l’orizzonte, il Sole splende sempre e scalda molto di più che sulla Terra. Mettendo da parte le suggestioni zen o filosofiche, è tutta la verità che serve per poter immaginare una fonte di energia inesauribile, continua, solo, si fa per dire, da acchiappare e portare giù. L’utilizzo dell’energia che ci regala la nostra stella esiste da quando qui da noi è sorta la vita. La pratica di trasformarla direttamente in energia elettrica da più di mezzo secolo. Ma per risolvere la crisi energetica, non solo quella di adesso, la sfida che ci attende nei prossimi decenni, collegata ai cambiamenti climatici, il solare come lo stiamo usando infatti non basta. L’idea è quindi di quelle grandiose: andare a raccogliere i raggi solari direttamente nello spazio, dove il Sole non tramonta e non è oscurato dalle nubi, e spedirla al suolo come una ricarica wireless, senza fili. Sembra un racconto di Asimov o Arthur C. Clarke. Altri in giro per il mondo, stanno progettando come fare (e investendo un sacco di soldi). L’Esa ha da poco annunciato il suo programma, Solaris che potrebbe fornire all’Europa dal 10 al 20 per cento del suo fabbisogno energetico.

Pannelli solari in orbita

L’idea è, a raccontarla così, abbastanza semplice da spiegare. Lanciare una quantità di satelliti enorme per creare un gigantesco parco fotovoltaico. Da lassù, dei convertitori di frequenza possono trasformare quell’energia elettrica in microonde da “sparare” verso Terra in direzioni di centrali che possono riconvertirle in corrente da immettere in rete. Gli impianti spaziali dovranno essere in orbita geostazionaria, quindi a circa 36.000 chilometri di distanza dal nostro Pianeta, per orbitare senza mai sparire dietro l’orizzonte, e puntare costantemente la centrale alla quale trasferiscono energia.

L’Agenzia spaziale europea ha divulgato, a metà agosto, il risultato di due studi costi-benefici sullo “Space based solar power” (Sbsp)  commissionati ad altrettante società: l’inglese Frazer-Nash Consultancy e la tedesca Roland Berger. In sintesi: si può fare, ma bisogna far ricerca, investire tanto, e cominciare subito, perché gli altri (Cina e Usa in testa) sono parecchi passi avanti. Il programma Solaris dell’Esa, è il primo passo per decidere, nel 2025, es investire per dare all’Europa il suo solare spaziale. Potrebbe essere, finalmente, una delle soluzioni per risolvere la domanda di energia del futuro, anche se non tanto prossimo, abbastanza in tempo, comunque, per contribuire all'obiettivo europeo di net-zero 2050.

La debolezza principale di risorse come le rinnovabili, e il solare in particolare, è la loro incostanza. Il vento non soffia sempre. Il Sole ogni giorno scende oltre l’orizzonte, l’incidenza dei raggi cambia durante la giornata e le stagioni e, ovviamente, eventuali nuvole lo schermano. Nello spazio e nella giusta posizione in orbita, invece, il Sole splende sempre e senza il disturbo e la dissipazione dell’energia dei raggi solari provocate dall’atmosfera. L’idea per il solare spaziale non è nuova, la espresse in un articolo pubblicato su Science l’ingegnere aerospaziale americano Peter Glaser ben 54 anni fa. Ma come lui stesso ammise, non c’era ancora la tecnologia necessaria e sufficiente a realizzarlo. Mezzo secolo dopo, si è progredito molto, ma la sfida resta titanica.

 

Il più grande edificio spaziale

I documenti tecnici descrivono opere colossali, al limite della fantascienza. Frazier and Nash prende in esame Cassiopeia, una struttura elicoidale dal diametro di due chilometri con 61 mila strati di pannelli che convertono in elettricità la luce raccolta da due specchi altrettanto grandi. Il tutto con un peso di duemila tonnellate. Per fare un confronto, la Stazione spaziale internazionale, l’edificio spaziale più grande mai costruito, è grande quanto un campo da calcio per 420 tonnellate. 

 

Un progetto così complesso dovrà essere assemblato direttamente in orbita da robot progettati a questo scopo (che ancora non esistono), serviranno centinaia di lanci per portare lassù tutto quanto: “La fornitura del numero di satelliti necessari per soddisfare il contributo massimo che lo Sbsp potrebbe dare al mix energetico nel 2050 richiederebbe un aumento di 200 volte della capacità di trasporto spaziale rispetto a quella attuale” si legge nel rapporto. Affidarsi a provider privati come SpaceX non basterebbe, bisognerebbe costruire nuovi spazioporti e investire tantissimo per le infrastrutture, oltre che per ricerca e sviluppo. Denari pubblici, almeno all’inizio, per poter aprire la strada ai privati. Nello spazio si è sempre fatto così. Costo stimato: 9,8 miliardi di euro per il primo impianto, l’economia di scala permetterebbe di ridurre a 7,6 miliardi il decimo impianto. Con costi di funzionamento di 1,3 miliardi di euro.

Anche il progetto analizzato dalla Roland Berger, SPS-Alpha del fisico della Nasa John C. Mankins è monumentale. Una struttura riflettente, composta da specchi, convoglia la luce verso un sistema di conversione che la trasforma in radiofrequenze da trasmettere alle stazioni di ricezione al suolo attraverso le antenne. Il tutto dovrebbe occupare una superficie di circa 15 chilometri quadrati, con un diametro attorno ai quattro chilometri. Anche per una stazione di questo tipo, che potrebbe, secondo lo studio, avere una capacità di 2 Gw, serve mette a punto un modello di assemblaggio in orbita con robot il più possibile autonomi, e una capacità e frequenza di lancio molto superiori a quelli attuali. Per i costi, viene stimato un range che va dagli 8 ai 33 miliardi solamente per la prima stazione, dai 7,5 ai 31 per 30 anni di funzionamento, e 2,3-2,5 per lo sviluppo.

 

Le sfide tecnologiche

Per entrambi i sistemi, le relazioni evidenziano come ci siano ancora molti sforzi di ricerca tecnologica da affrontare. In particolare per studiare le componenti delle strutture da inviare nello spazio, la conversione di energia e la trasmissione (mai tentata da una distanza così) e costruire grandi stazioni a terra per la ricezione e immissione in rete. Ma soprattutto servirà progettare e costruire robot spaziali in grado di prendere ogni mattoncino e sistemarlo al suo posto. È tutto alla nostra portata, ma tutto deve essere ancora reso possibile, dato che siamo agli albori di queste tecnologie. Le stime dicono che nel 2040 potremmo avere già le prime stazioni, ma bisogna investire subito per metterci al passo, avvertono gli analisti, di Cina, Usa e Regno Unito.

 

Quanta energia arriverà dallo spazio?

Assumendo che tutto vada secondo le previsioni, il primo sistema, Cassiopeia, potrebbe produrre “800 Twh all’anno entro il 2050”. Mentre nel caso di SPS-Alpha, “un sistema

SBSP con una capacità di 2 GW produrrebbe circa 15,78 TWh all'anno. Per soddisfare circa il 10% della domanda lorda di elettricità dell'UE, pari a circa 3.500 TWh nel 2050 (Scenario di riferimento UE 2020), sarebbero necessari 20-25 sistemi SBSP operativi con una produzione totale di elettricità pari a 314-390 TWh” si legge nello studio Roland Berger.

In termini economici, invece, fare un bilancio è complesso perché dipende dalle previsioni sul costo dell’energia, che dipendono anche dalla volontà politica, o meno, di attuare la transizione ecologica. Quindi se in futuro continueremo a usare in grande misura combustibili fossili o daremo un boost definitivo alle rinnovabili e al nucleare. E a come reagiranno i mercati e le economie. Considerando gli investimenti per costruire, lanciare, assemblare, manutenere e far funzionare il sistema Cassiopeia (418 miliardi), il valore netto dei profitti sarebbe compreso tra i “149 miliardi di euro e 262 miliardi di euro con il valore del caso centrale di 183 miliardi di euro tra il 2022 e il 2070”.

Insomma: conviene. Però l’Europa non è la prima a pensarci seriamente. Anzi. Molto più avanti di noi ci sono gli Stati Uniti, ci sta lavorando infatti la Nasa, mentre un anno fa l’imprenditore Donald Bren ha donato 100 milioni al Caltech per il progetto dell’Università californiana. Il Regno unito sta già considerando l’investimento in un progetto da 16 miliardi di sterline e potrebbe portare il primo prototipo in orbita nel 2035. Mentre la Cina, che ha quanto pare è più avanti di tutti, ha testato con successo un modello completo e potrebbe portarlo in orbita già nel 2028.